La Villa di Demetriade

Demetrias Amnia Virgo

(Demetriade, vergine della gens Anicia; Epitaffio di Demetriade)

La controversia tra Agostino e Pelagio

Quanti saranno i romani che, passando per via Demetriade (una via che collega, all’altezza dell’Arco di Travertino, l’Appia Nuova alla Tuscolana), si chiedono chi sia e cosa abbia fatto nella sua vita, questo personaggio, per avere l’onore di avere una via della città intitolata a suo nome? Quanti sapranno che Demetriade era una donna della gens Anicia, una delle famiglie più importanti dell’aristocrazia romana della Roma imperiale, vissuta tra il IV e il V secolo? E quanti, infine, saranno a conoscenza che il suo ordinamento a suora, avvenuto nel 413 a Cartagine, scatenò una famosa controversia religiosa tra Agostino d’Ippona e Pelagio, un monaco capace di una grande eloquenza, arrivato a Roma dalla Britannia. Una contesa che infiammò la chiesa cattolica ed ebbe per teatro, oltre che la sede del papato, l’Africa del Nord e la corte imperiale di Ravenna.

La questione ebbe la sua origine in una famosa lettera di encomio e consiglio spirituale (“Ad Demetriam”), scritta da Pelagio a Demetriade, in occasione della “presa del velo”, da parte di quest’ultima.

La cerimonia avvenne a Cartagine (Africa cristiana), in quanto la gens Anicia, aveva qui trovato rifugio, dopo la fuga da Roma avvenuta in occasione del sacco della città da parte dei visigoti di Alarico, nel 410.

 

“Queste qualità non potrebbero essere in te se non provenissero da te stessa”

Pelagio nella sua lettera evidenziò un concetto di fondo: la salvezza può provenire dalla sola volontà umana.

Agostino, al contrario, riteneva che, a motivo del peccato originale, la salvezza non potesse scaturire dalla sola volontà umana, ma che, fatta salva la necessità di condurre una vita retta e integerrima, essa fosse nelle mani di Dio.

La contrapposizione tra le due concezioni della vita religiosa, non poteva essere più acuta: da una parte quella pelagiana, tendente a costruire una comunione di “santi uomini” in grado di trasformare in realtà il sogno di una “società perfetta”, dall’altra quella agostiniana, che, rinviando a mani ben più sapienti di quelle umane, ricercava una “mediazione” tra tensione alla salvezza e vita quotidiana e riservava un posto anche al più disprezzabile dei peccatori.

Agostino, peraltro, era appena uscito vittorioso da una precedente controversia: quella donatista (dal nome del vescovo di Numidia, Donato di Case Nere), che per un secolo aveva infiammato le chiese africane.

Anche in questa disputa, gli schieramenti furono netti: da una parte c’erano gli intransigenti, che affermavano che i sacramenti amministrati da quei vescovi che, durante la grande persecuzione di Diocleziano (IV secolo d.C.), avevano consegnato i libri sacri alle autorità romane (“traditio”, da cui il termine di traditore), non fossero validi e dall’altra, chi affermava che la validità di questi non dipendesse dalla dignità di chi li amministrava, ma risiedesse negli stessi sacramenti.

La lotta tra le due fazioni, che ritenevano entrambe di essere assistite dallo Spirito Santo e che l’altra fosse, di conseguenza una chiesa di “morti che camminano”, si trascinò per oltre un secolo. Il donatismo, infatti, fu sì dichiarato eretico dal Concilio di Arles nel 314, ma continuò ad infiammare l’Africa ancora per molti anni.

Dietro alle diverse posizioni religiose si nascondevano anche rivendicazioni di altro tipo (il donatismo era più forte tra gli strati umili e conteneva una sorta di contrapposizione tra Chiesa Africana e Chiesa Romana), tant’è che si dovette di nuovo condannarlo nel Concilio di Cartagine del 411 e che la questione fu definitivamente chiusa, solo con la conquista islamica del Magreb.

Anche nella controversia donatista, quindi, Agostino si schierò dalla parte di chi comprendeva la debolezza umana, contro chi metteva il coraggio a fondamento di una società di migliori.

 

Ma torniamo alla disputa con Pelagio. Alla questione, puramente teologica, della salvezza come frutto possibile della sola volontà umana, se ne aggiunse presto un’altra, potenzialmente, perfino più dirompente: quella dell’atteggiamento nei confronti della ricchezza.

Togli i ricchi, e non ci saranno neanche i poveri

Tra il 408 e il 414, apparve, infatti, un anonimo trattato di ambiente pelagiano intitolato “De devitiis” (Sulla ricchezza)”.

Aldilà di letture semplificatorie e anacronistiche (l’anacronismo consiste nell’interpretazione di un fatto, con categorie culturali sviluppate posteriormente al fatto stesso, ad esempio, nel caso in essere: la lotta di classe), non c’è dubbio che l’autore del trattato, proponesse una visione assai negativa della ricchezza.

Anche di fronte a quest’argomentazione, per così dire, “radicale”, che paradossalmente, si diffuse proprio tra gli esponenti di quell’aristocrazia romana, costretta a fuggire da Roma e a rifugiarsi in Africa, Agostino mantenne una posizione ferma e chiara. Se l’anonimo autore del “De devitiis”, non aveva dubbi che i lussureggianti “fiori della ricchezza” affondassero le loro radici in un “terreno di delitti” e proponesse di togliere i ricchi per non far più esistere i poveri, costruendo una sorta di società di “eletti”, in grado di dirigere il proprio comportamento secondo principi di rettitudine, Agostino fu più “complesso”. Per lui la ricchezza poteva continuare ad esistere, purché i ricchi non peccassero di superbia (“Togli la superbia, e la ricchezza non [ti] recherà nocumento”) e facessero dell’elemosina una pratica costante.

 

Sullo sfondo della controversia, si agitavano grandi avvenimenti politici, a partire dal crollo della parte occidentale dell’Impero Romano, sotto la spinta di più fattori concomitanti tra i quali, se proprio ne vogliamo isolare alcuni, c’erano la crisi economica dovuta all’aumento delle spese necessarie per mantenere un esercito che si espanse fino a contare 600.000 effettivi e le “migrazioni” delle popolazioni barbariche, tra le quali emersero quelle dei “Goti” che abbandonarono la Pannonia (l’attuale Ungheria) con intere famiglie al seguito, perché aggrediti dagli Unni, a loro volta, messi in moto da un cambiamento climatico che rese impossibile la vita nelle steppe asiatiche.

Le migrazioni e le conseguenti “invasioni” provocarono la fuga di alcuni esponenti della più ricca aristocrazia terriera (la gens Anicia era una tipica esponente di tale aristocrazia), proprio verso quella che, all’epoca, era considerato “il granaio di Roma”. Qui, questi nuovi arrivati, conquistati nella loro terra d’origine, dalle teorie del monaco britanno, trovarono Agostino, vescovo d’Ippona (oggi Amaba, in Algeria) e il suo amico Alipio, vescovo di Tagaste (sempre in Algeria).

La controversia superò, quindi, i confini di una mera questione “teologica”, per assumere contorni anche più “terreni”, quali quelli relativi alla destinazione delle donazioni alle diverse chiese cattoliche.

La disputa non ebbe una soluzione semplice. Nonostante due assoluzioni delle teorie pelagiane da parte di papa Innocenzo nel 416 e del successore di questi, Zosimo nel 417, che, tra l’altro, inviò una dura reprimenda ai vescovi africani, sui pericoli di una speculazione teologica eccessivamente rigida, il gruppo di Agostino non si arrese, ricorrendo all’altro potere che all’epoca poteva intervenire in tali questioni: l’imperatore.

Già, perché, dopo che Aurelio, vescovo di Cartagine, convocò un consesso di duecento vescovi che deliberò di inviare dei delegati in Italia, ci si rivolse direttamente alla corte imperiale di Ravenna, ottenendo dall’imperatore Onorio una ferma condanna delle teorie di Pelagio e Celestio. Alipio di Tagaste fu, addirittura, accusato dai seguaci di Pelagio, di aver portato in regalo ottanta stalloni della Numidia (oggi, nord dell’Algeria), particolarmente preziosi, dopo le contemporanee devastazioni dei Visigoti e dei Vandali in Spagna ad un autorevole personaggio ritenuto in grado di influenzare la decisione.

La decisione dell’imperatore non quietò definitivamente la questione. Se, infatti, di fronte all’editto imperiale, Zosimo fece un vero e proprio voltafaccia schierandosi contro Pelagio, seguito da quel clero romano, buona parte del quale, compresi i futuri vescovi di Roma Celestino (422-432) e Sisto (432-440) si era precedentemente schierato con il monaco britanno, una voce potente si levò, dal Meridione d’Italia, in opposizione ad Agostino. La voce fu quella di Giuliano, il giovane vescovo di Eclano (oggi Mirabella Eclano, in Puglia), che rifiutò di sottoscrivere il documento che condannava Pelagio.

L’affermazione delle idee di Agostino avevano sconvolto il giovane vescovo, convinto che dietro all’accaduto si nascondesse una sorta di colpo di stato architettato a Cartagine, per affermare una visione “neomanichea” della vita religiosa, nella quale si appiattiva la questione del libero arbitrio e si demonizzava il matrimonio.

Le sue furono parole risuonarono forti: in suo appello ai vescovi dell’Occidente cristiano, Giuliano scrisse: “In quasi tutto l’Occidente è stato accettato un dogma non meno stupido che empio”.

Il vescovo italiano fu esiliato in Cilicia dove ebbe modo di approfondire la conoscenza della cultura greca e di quel cristianesimo radicato nel Mediterraneo orientale di cui Agostino e i cristiani d’Africa erano completamente all’oscuro. La vena polemica contro Agostino ne fu alimentata, riscoprendo gli argomenti sviluppati ad Antiochia contro il manicheismo proveniente dalle terre più ad Oriente, Giuliano attaccò profondamente le opinioni di Agostino sul peccato originale.

Molti furono i libri in cui l’esiliato, prima di rientrare in Sicilia e morirci intorno al 450, si scagliò contro l’ormai anziano prelato africano, tanto che la vecchiaia di questi fu interamente attraversata dal compito di rispondere ad attacchi tutt’altro che formali (Giuliano arrivò a descrivere Agostino come Patronus asinorum, il “patrono degli asini”).

Cosa motivò Agostino? Davvero fu motivato da una semplice volontà di difendere la sua chiesa e i conseguenti benefici di potere ed economici? Secondo noi, non è così. Nell’avversione di Agostino alle idee pelagiane (così come, in precedenza, nei confronti di quelle donatiste), rintracciamo qualcosa di più profondo che la volontà di difendere un potere: la sua era l’ostilità di un uomo che provava sgomento e paura di fronte a uomini che propugnavano “una società perfetta”.

I pelagiani pretendevano, infatti, come già i donatisti, di costruire una chiesa senza macchia e difetto, di trasformare ogni cristiano in monaco, sottintendendo, peraltro, di essere i soli appartenenti ad una Chiesa siffatta.

Agostino osò contrapporre a questo austero ideale di riforma, la modesta e composta immagine di un buon cristiano “che si considera un obbrobrio e che glorifica Dio”.

Alla fine, a vincere, furono le idee di Agostino: la sua moderazione, la sua visione di una chiesa, fondata sulla carità, che doveva accettare tutti gli uomini nel suo seno, peccatori, vigliacchi e anche i ricchi. Queste, infatti, le sue parole al proposito della ricchezza:

“Poiché anche le ricchezze terrene e materiali provengono dalla Sua generosità [..] Poiché le ricchezze sono buone, e quando appartengono all’uomo benevolo e generoso, contribuiscono altamente a rinsaldare i legami della società è […] Molti usano la ricchezza come strumento di carità, sia che l’abbiano ricevuta onestamente per via ereditaria sia che l’abbiano acquisita in altro modo

 

Quando ormai la disputa era risolta a favore di Agostino, Demetriade rientrò a Roma dall’Africa, dove, ormai in veneranda età, morì negli anni cinquanta del V secolo. Venne sepolta all’interno della sua villa, a 5 chilometri dal Campidoglio, (oggi all’interno del Parco delle Tombe della via Latina), una parte della quale era stata trasformata, per sua volontà, in una basilica dedicata a Santo Stefano.

 

Conclusioni. Come non essere attratti dalle radicali proposte di Pelagio su un’austera società di uomini perfetti? O da quelle del suo anonimo seguace sulla ricchezza? Molti, infatti, da allora, sono stati conquistati da proposizioni di società perfette ed utopiche, dove tutti sono uguali e, proprio per questo, raggiungono la felicità in terra.

Di fronte a queste proposizioni, enorme dovette essere lo sforzo di Agostino per “riflettere” all’interno della vita quotidiana di ciascuno, la “tensione” verso un aldilà non immediato, ma raggiungibile in virtù di una vita soltanto “il più possibile”, retta.

Ma perché interessarci di una questione ormai confinata agli studi degli specialisti? In realtà in quella controversia lontana nella storia, risuonano questioni ancora attuali. Un contrasto analogo, ad esempio, è rintracciabile all’interno della storia del movimento operaio: quello che, a partire dalla nascita dei primi gruppi di operai, in coincidenza della rivoluzione industriale, ha opposto, in più riprese, coloro che propugnavano una rivoluzione egualitaria e capace di realizzare la felicità in terra a quelli che, più modestamente, indicavano in un riformismo, più o meno paziente, la via per migliorare le condizioni di vita delle classi subalterne (curiosamente, la costante accusa, lanciata dai primi contro i riformisti, fu proprio quella di “traditori”, cioè la stessa che i donatisti, usarono, nel IV secolo, contro i vescovi colpevoli di aver consegnato i libri sacri alle autorità romane).

Anche nel recente passato, quando già avrebbe dovuto essere palese, che alcune delle “società perfette” si erano trasformate in un incubo, molti (si pensi, ad esempio, a realtà come i gruppi armati degli anni ‘70), sono stati conquistati dal fascino di una comunione di uomini, uniti dalla prospettiva di realizzare una “società perfetta”. Forte è, ancora oggi, seppur in aree marginali la convinzione che tutti quelli che lavorano per un miglioramento, anche modesto, delle condizioni materiali e per diminuire la disuguaglianza, siano, in realtà, “traditori” della giusta causa.

A noi, la questione riporta alla mente le parole di Federico Caffè (l’economista sparito nell’aprile del 1987, in circostanze mai chiarite; tra l’altro si parlò, all’epoca, anche di un suo ritiro in convento), che in uno scritto apparso il 29 gennaio 1982 sul Manifesto, scriveva: “Il riformista è ben consapevole di essere costantemente deriso da chi prospetta future palingenesi (rinnovamento, rinascita, rigenerazione; nel Nuovo Testamento il termine indica la rigenerazione dell’anima o il rinnovamento del cosmo alla fine dei tempi; nel linguaggio politico, la trasformazione radicale della società), soprattutto per il fatto che queste sono vaghe, dai contorni indefiniti e si riassumono, generalmente, in una formula che non si sa bene cosa voglia dire, ma che ha il pregio di un magico effetto di richiamo.

La derisione è giustificata, in quanto il riformista, in fondo, non fa che tessere una tela che altri sistematicamente distruggono. È agevole contrapporgli che, si quando non cambia “il sistema”, le sue innovazioni miglioratrici non fanno altro che tappare buchi e puntellare un edificio che non cessa per questo di essere vetusto o pieno di crepe (o “contraddizioni”). Egli è tuttavia convinto di operare nella storia, ossia nell’ambito di un “sistema”, di cui non intende essere né l’apologeta, né il becchino, ma, nei limiti delle sue possibilità, un componente sollecito ad apportare tutti quei miglioramenti che siano concretabili nell’immediato e non desiderabili “in vacuo”. Egli preferisce il poco al tutto, il realizzabile all’utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione radicale del “sistema”.

Lo stesso Caffè, ricordava, con provocatorio minimalismo, come il compito dell’economista fosse quello di contribuire “a far arrivare l’acqua della valle alle case più alte di uno sperduto paese”.

 

Bibliografia

P.Brown. agostino d’Ippona; Einaudi 2005

p.Brown: Per la cruna di un ago; Einaudi 2014

F.caffé: La solitudine del riformista; Boringhieri 1990

AA.VV: Federico Caffè; Donzelli 1995

Parco delle Tombe della via Latina