Le Fosse Ardeatine e via Rasella
Come è noto, le esecuzioni delle Fosse Ardeatine furono la rappresaglia nazista all’azione organizzata dai GAP (Gruppi di Azione Partigiana) di Roma, in via Rasella il 23 marzo 1944, che provocò la morte di 33 soldati della XI Compagnia del Polizeiregiment Bozen, in servizio d’ordine pubblico a Roma e in fase di addestramento, composta di sud tirolesi della provincia di Bolzano e di due civili (Antonio Chiaretti, partigiano di Bandiera Rossa e il bambino Piero Zuccheretti). Il numero delle persone da uccidere fu fissato in 10 italiani per ciascun tedesco (il numero di 335 fu dovuto all’inserimento, per “errore” di ulteriori cinque vittime, da parte delle Autorità naziste).
Le Fosse Ardeatine rappresentano un episodio fondante della cultura antifascista della nostra città. È per questo, che, da sempre, alcuni settori politici tentano di diffondere l’idea che in realtà “i responsabili” delle Fosse Ardeatine, anziché i nazisti, siano stati i partigiani dei Gap che progettarono ed eseguirono l’attentato di via Rasella. Per evidenziare tale responsabilità si utilizzano alcuni “stereotipi”, tra i quali i principali sono che i partigiani:
1. Non si presentarono alle autorità tedesche, in modo da evitare la rappresaglia da parte dei nazisti (come fece, ad esempio, secondo loro, il carabiniere Salvo d’Acquisto a Palidoro);
2. Eseguirono l’azione, pur sapendo che i tedeschi avrebbero effettuato la rappresaglia su persone innocenti;
3. Eseguirono un’azione inutile, perché tanto la guerra l’avrebbero vinta non certo loro, ma gli alleati già sbarcati ad Anzio.
4. Colpirono soldati che in realtà non erano impegnati in azioni combattenti e che, in fondo, erano italiani.
5. Compirono un’azione “illegittima” perché i partigiani non erano investiti dell’autorità necessaria per decidere azioni come quelle di via Rasella.
Il tema è molto delicato, visto che alcuni degli argomenti sono capaci di “scavare” in ciascuno di noi: Qual è il confine tra una azione legittima e una illegittima? Si ha il diritto/dovere di ribellarsi ad un invasore? Si ha il diritto di uccidere, rischiando di coinvolgere vittime civili, in un’azione di guerra? Cosa e chi decide se un’azione è di guerra legittima, o meno? Non è un caso se, nel corso degli anni, anche personaggi non passibili di essere catalogati come reazionari, quali ad esempio, Pannella e Rutelli, hanno espresso pubblicamente la loro condanna nei confronti dell’attentato.
Rimandiamo per approfondimenti, allo splendido volume di Alessandro Portelli: L’ordine è già stato eseguito; Feltrinelli editore, nel quale si ricostruisce il quadro degli avvenimenti, riportando la voce dei parenti delle vittime, degli autori dell’azione e di alcuni personaggi importanti per la ricostruzione del clima storico dell’epoca e nel quale si analizzano anche le complesse questioni giuridiche sollevate nei vari processi collegati alla vicenda:
Riassumiamo, però, qual è la nostra posizione sulla vicenda, sforzandoci di distinguere tra dati oggettivi e punti nei quali l’opinione personale entra in gioco in modo rilevante, come nella questione se sia accettabile compiere attentati contro gli invasori, anche rischiando di causare vittime innocenti.
1. Non ci fu nessun appello a presentarsi.
“Quanti giorni dopo l’azione di via Rasella, fu eseguita la strage delle Fosse Ardeatine?”. Se formulassimo, anche a soggetti mediamente attenti al dibattito politico odierno, questa domanda, probabilmente riceveremmo una risposta nella quale i tempi si dilatano da qualche giorno ad addirittura qualche mese. La dilatazione dell’arco temporale è funzionale al radicamento della convinzione per la quale “i partigiani avrebbero dovuto consegnarsi”. In realtà, anche ammesso che fosse giusto presentarsi (i partigiani compivano, a loro giudizio, regolari azioni di guerra e la loro presentazione, in questo quadro, non ha alcun senso), non ci fu nessuna possibilità concreta di farlo.
L’azione fu compiuta alle ore 15.52 del 23 marzo 1944. L'Alto comando tedesco, procedette al prelevamento delle vittime nelle prime ore del pomeriggio del giorno seguente. Alle ore 22.55 del 24 marzo lo stesso comando diramò un comunicato, trasmesso dall'Agenzia Stefani, che, dopo aver descritto l'azione di via Rasella, "imboscata eseguita da comunisti-badogliani", proclamava la volontà di "stroncare l'attività di questi banditi" e rivelava di aver ordinato che "per ogni tedesco ammazzato dieci comunisti-badogliani saranno fucilati" e concludeva con la frase inequivocabile "l'ordine è già stato eseguito". I quotidiani romani riportarono il comunicato nella loro edizione di mezzogiorno del 25 marzo. Contrariamente ad un’opinione diffusa in seguito, nessun manifesto con l’invito a presentarsi fu affisso in città (la circostanza è stata accertata in tutti i processi svoltisi a carico dei partigiani o in quelli a carico di Herbert Kappler ed Erich Priebke).
Al proposito riportiamo la Sentenza del Tribunale Militare di Roma, in data 01.08.1996 emessa a seguito del procedimento penale a carico di: PRIEBKE Erich, nato a Berlino (Germania) il 29 luglio 1913, residente a San Carlos de Bariloche (Argentina), calle 24 de Septiembre 167, già capitano delle "SS" germaniche, detenuto presso il Carcere Militare "Forte Boccea" di Roma, incensurato, presente.
“Per quanto riguarda [il punto 2)], invece, è pacifico che nessun avvertimento della imminente strage pervenne in alcun modo agli attentatori di via Rasella, sia perché ciò è stato chiaramente escluso da tutti i maggiori responsabili della vicenda (da KESSELRING a KAPPLER), sia perché non ce ne sarebbe stato il tempo a causa dell'esiguo intervallo tra l'attentato (compiuto alle ore 15.00 circa del 23 marzo 1944) e la orribile strage, iniziata appena 24 ore dopo lo scoppio della bomba e portata a termine alle 19.30 del 24 marzo 1944.
Ma anche se questa minaccia fosse stata realmente rivolta ai partigiani, non può ritenersi che questi avessero il dovere, quanto meno morale, di presentarsi per evitare il barbaro massacro: ciò avrebbe costituito un pericolosissimo e inammissibile cedimento alla ferocia nazista, che avrebbe potuto paralizzare ogni successiva attività della Resistenza; cedere ad un ricatto del genere, avrebbe comportato la rinuncia ad ogni futura azione di disturbo o danneggiamento dell'apparato bellico tedesco; una eventuale presentazione dei militanti dei G.A.P. avrebbe avallato consecutive inammissibili pretese, incompatibili con la natura stessa delle azioni belliche. L'unica via percorribile dagli attentatori, se un simile avvertimento fosse esistito veramente, sarebbe stata quella di combattere strenuamente, armi in pugno, per impedire il compimento della strage, non certo quella di condannarsi a morte consegnandosi spontaneamente al nemico e pregiudicando irrimediabilmente la lotta di liberazione.”
2. La rappresaglia su vittime innocenti non era affatto automatica
Innanzitutto va detto che prima di via Rasella, ci furono numerosi altre azioni alle quali non segui nessuna rappresaglia (ad esempio, il 18 dicembre 1943, fu attaccato il cinema Barberini, dove era in programma una proiezione riservata e dove ci furono otto morti tedeschi; il giorno dopo ci fu un altro attacco all’hotel Flora, con almeno sei morti tedeschi) e che ci furono altresì, numerose stragi naziste non collegate ad alcuna azione partigiana (il 20 ottobre 1943, ad esempio, in seguito ad un attacco a Forte Tiburtino, compiuto da partigiani del gruppo Bandiera Rossa e popolani, furono fucilate dieci persone “membri di “una banda di comunisti”, “per aver attaccato a mano armata appartenenti alle forze armate germaniche”).
Occorre sottolineare che, all’epoca dei fatti, la rappresaglia era vietata dalla convenzione dell'Aia del 1907, mentre la Convenzione di Ginevra del 1929, relativa al trattamento dei prigionieri di guerra, faceva esplicito divieto di atti di rappresaglia nei confronti dei prigionieri di guerra nell'Articolo 2.
Dal punto di vista internazionale l'argomento rappresaglia era contemplato nei codici di diritto bellico nazionali, in cui pur prevedendo la rappresaglia, la si regolamentava facendo esplicito riferimento ai criteri della proporzionalità rispetto all'entità dell'offesa subita, alla selezione degli ostaggi (che non doveva essere indiscriminata) e alla salvaguardia delle popolazioni civili. Nessuno di questi criteri fu rispettato dai tedeschi nel caso delle Fosse Ardeatine: la rappresaglia fu del tutto sproporzionata; nessuno degli uccisi aveva alcunché a che fare con l'attacco; furono fucilati anche sanitari, infermi e malati, nonché civili inermi del tutto estranei alla Resistenza, molti dei quali selezionati solo in quanto ebrei; inoltre i nazisti non eseguirono alcuna seria indagine per appurare l'identità dei responsabili dell'attacco. In conclusione: nessuno avrebbe potuto davvero prevedere che i nazisti avrebbero fucilato vittime innocenti.
3. L’azione non era affatto inutile per le sorti della guerra
Furono gli stessi comandi alleati, che intrattenevano regolari contatti con le forze partigiane, a chiedere di effettuare, in quel periodo, nel quale trovavano rilevanti difficoltà ad avanzare verso Roma, azioni di sabotaggio contro le truppe tedesche. Peter Tomkins che era agente alleato a Roma in quel periodo ricorda che: “Gli alleati in quel momento dicevano colpite duro, colpite duro”.
4. I soldati colpiti erano organici all’interno del sistema militare hitleriano.
Aldilà di pietismi strumentali, secondo i quali gli appartenenti al Battaglione Bozen, non erano che anziani militari di “riserva”, al proposito, ci pare decisiva, anche se può apparire brutale, l’opinione di Vincenzo Balsamo, uno dei gappisti di via Rasella: “Quando si indossa un’uniforme si sta da una parte sola”. Ad ulteriore chiarimento riportiamo la deposizione rilasciata in qualità di testimone, durante il processo a Kappler, da Rosario Bentivegna. Nel corso dell'udienza del 12 giugno 1948 il Bentivegna, la cui partecipazione all'azione era stata rivelata da l'Unità durante il processo a suo carico per l'uccisione del sottotenente della Guardia di Finanza Giorgio Barbarisi (conclusosi con un'assoluzione per legittima difesa), mentre i nomi degli altri principali partecipanti all'azione erano allora sconosciuti. La sua deposizione ebbe luogo in quella che la stampa definì «un'atmosfera densa di elettricità». Una cronaca riporta che Bentivegna si presentò alla corte «pronto a riprendersi da tutte le possibili accuse, pronto a chiarire e a giustificare, per sé e per i suoi compagni, l'atto compiuto allora. Contrariamente alle previsioni, tutto è andato per il meglio, se si esclude il particolare di una madre, tale Sparta Gelsomini, che ebbe il figlio ucciso alle Cave Ardeatine la quale, ad un certo momento, ha voluto lanciargli sul viso la più infamante delle ingiurie: "Vigliacco, vigliacco, se ti fossi presentato allora, mio figlio non sarebbe stato fucilato!"». Bentivegna disse di essere stato all'epoca «un soldato», dichiarando di aver agito su ordine di Giorgio Amendola. Dopo aver illustrato la dinamica dell'azione, sostenne di non essere stato a conoscenza dei bandi tedeschi sulle rappresaglie e rilevò che dopo l'attacco non vi era stata nessuna richiesta ai responsabili affinché si consegnassero, aggiungendo: «Se avessimo ricevuto un simile invito dal comando tedesco, per salvare coloro che poi furono fucilati alle Cave Ardeatine, noi partigiani ci saremmo senz'altro presentati». Alla richiesta dei nomi degli altri gappisti, Bentivegna rifiutò di rispondere. Interrogato sugli obiettivi dell'azione bellica, affermò: «Essi furono più politici che militari. Non si trattava solo di danneggiare dei reparti tedeschi, ma era necessario far intendere loro che il fatto di non avere rispettato l'accordo stabilito per dichiarare Roma città aperta era per loro stessi molto pericoloso». Secondo Zara Algardi, Bentivegna dichiarò: «La colonna dei tedeschi costituiva un obiettivo militare. I tedeschi avevano firmato un armistizio e lo ruppero. Invasero Roma che pertanto divenne obiettivo per i bombardamenti alleati. Facevano arresti e rastrellamenti. Erano soldati tedeschi: ho avuto ordine di attaccarli e li ho attaccati».
5. L’attacco di via Rasella fu un’azione pienamente legittima.
Sul punto andrebbe letta attentamente la tesi difensiva presentata da Arturo Carlo Jemolo, durante il processo civile intentato nel 1949 presso il Tribunale di Roma, da alcuni familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine ai danni degli autori dell’azione, al fine di ottenere il risarcimento dei danni da parte dei responsabili dell'azione gappista, che conclusosi nel 1957 con una pronuncia delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione, vide la soccombenza degli attori in tutti e tre i gradi di giudizio. Il giurista propose una tesi secondo cui l'attacco andava considerato legittimo anche prescindendo dal riconoscimento della qualità di rappresentanti del governo legittimo in capo ai partigiani, affermando la generale legittimità degli atti di guerra compiuti dai cittadini di un Paese occupato in virtù del diritto delle popolazioni di difendersi dagli aggressori. Lo scritto di Jemolo, ricco di riferimenti storici, definiva l'azione gappista «attentato terroristico, destinato cioè non ad ottenere un immediato successo di crollo del nemico, ma a seminare strage nelle sue file e dargli il senso panico dell'insidia in agguato, ed al tempo stesso ad eccitare la combattività nelle forze della Resistenza». Jemolo sostenne che «l'attentato politico ha la sua non lieta storia come arma al servizio di tutte le idee» e citò come precedenti la congiura delle polveri, gli attentati contro i sovrani francesi Enrico III ed Enrico IV, quello di Felice Orsini contro Napoleone III, «molte delle imprese mazziniane, per non dire tutte», i moti di Milano del 1853, l'attentato alla caserma Serristori di Roma del 1867, nonché quello pianificato da Guglielmo Oberdan contro Francesco Giuseppe.
Su un piano meno tecnico può essere utile leggere la deposizione di Giorgio Amendola rilasciata durante un'udienza dello stesso processo, il 18 giugno 1948:
“Amendola: L'azione di via Rasella? Essa fu preordinata dalla giunta militare del C.L.N. nelle sue linee generali. L'esecuzione pratica del piano venne poi affidata ad altri organi. Perché arrivammo a queste azioni? Chiaro e semplice: I tedeschi non rispettavano la dichiarazione di "città aperta"; noi volevamo costringere i tedeschi ad allontanare i depositi, gli autoparchi, gli accampamenti che avevano costruito nella città e questo per evitare che gli alleati riprendessero i bombardamenti aerei. E così vennero svolte le nostre azioni: a piazza Barberini, a piazza Verdi, a via Tomacelli, a viale Mazzini. Si arrivò, così, a quella di via Rasella. Si era pensato, in un primo momento, di attaccare un corteo fascista che doveva sfilare in occasione della celebrazione della fondazione dei fasci. Poi questo corteo non ebbe più luogo e, così, pensammo di assalire una colonna tedesca. L'azione diventava sempre più necessaria e urgente: bisognava far intendere ai tedeschi che, qualora avessero intenzione di trasformare Roma in un campo di battaglia, essi avrebbero avuto da fare anche con le forze della resistenza."
Presidente del tribunale (generale di brigata Euclide Fantoni): Ma sapevate che agendo in tal modo andavate incontro a delle rappresaglie?
Amendola: In modo specifico no. Sapevamo, però, che in genere i tedeschi usavano
l'arma feroce della rappresaglia per tenere sotto una specie di incubo le forze
partigiane. Non poteva essere questo a interrompere l'azione della resistenza:
ed eravamo decisi ad affrontarla.
Presidente: Ma nel compiere questi
attentati vi preoccupavate che non venissero colpiti anche dei civili?
Amendola: Per questo solo motivo
usavamo in genere degli esplosivi di limitata capacità e provvedevamo ad
avvertire i civili della zona dove l'attentato veniva eseguito. A via Rasella
non un civile morì per lo scoppio della bomba: se qualcuno fu colpito lo si
deve alla feroce quanto inutile reazione dei tedeschi che non spararono sui
gappisti che li avevano attaccati, ma su inermi borghesi.
Presidente: Ma perché non pensaste ad
attaccare, successivamente, le carceri di via Tasso e di Regina Coeli per
liberare i compagni detenuti?
Amendola: La cosa fu pensata, ma non venne presa in considerazione: i tedeschi avrebbero fucilato i detenuti nelle stesse celle, ammesso pure che l'attacco da parte nostra fosse riuscito. Ci saremmo presentati ai tedeschi se ciò fosse stato necessario, ma da nessuno ci fu chiesto nulla. D'altronde, la nostra salvezza non ci importava per una esigenza personale: noi avevamo il dovere di vivere per continuare nella lotta, cosa che, in realtà, tutti facemmo e molti di noi caddero in azioni successive. Questo per rispondere a coloro che in questi giorni hanno insinuato sul valore dei partigiani.”
Infine va considerata l’ulteriore vicenda relativa alla morte di Piero Zuccheretti, il bambino morto a via Rasella. Ovviamente la morte di un bambino, ha costituito nel corso degli anni, l’occasione per accendere regolarmente polemiche intorno alla legittimità dell’attacco del 23 marzo 1943. Alcuni accusarono Bentivegna di aver azionato l’esplosivo nonostante avesse visto lo Zuccheretti seduto sul carretto della nettezza urbana. Bentivegna si è sempre difeso affermando di non essersi accorto della presenza delle vittime civili e che le circostanze dell’esplosione (numerose furono, ad esempio, le bombe a mano portate nella cintura dai soldati altoatesini, che esplosero per “simpatia”, non permettevano di ricostruire le circostanze precise dei fatti). Naturalmente il maggior argomento di difesa è stato quello della legittimità dell’azione effettuata. Nel 1996 Giovanni Zuccheretti (gemello della vittima), insieme a Luigi Iaquinti (nipote dell'altra vittima civile dell'esplosione, Antonio Chiaretti), presentò una denuncia contro gli ex gappisti avviando un procedimento penale che fu oggetto di durissime polemiche. Il 16 aprile 1998, il GIP Maurizio Pacioni del Tribunale di Roma, riprendendo la sentenza del processo contro Kappler del 1948, dichiarò che l'attentato di via Rasella non era stato “un legittimo atto di guerra”, ma una strage perseguibile penalmente, concludendo tuttavia con un provvedimento di archiviazione poiché “l'attentato può essere configurato come una strage, ma rientra sotto l'amnistia emanata con il Regio decreto del 5 aprile 1944”, in quanto il suo fine rispondeva all'obiettivo di “liberare l'Italia dai nazisti”.
I partigiani coinvolti nel procedimento (oltre a Bentivegna, Carla Capponi e Pasquale Balsamo) ricorsero, contestando fra l'altro la qualificazione dell'azione come strage (anziché come atto legittimo di guerra). Nel 1999 la Cassazione Penale accolse il ricorso e annullò l'archiviazione del reato per estinzione causa intervenuta amnistia, sostituendola con la non previsione del fatto come reato e riaffermando la legittimità dell'attentato in quanto azione di guerra.
Insomma via Rasella e le Fosse Ardeatine sono un argomento complesso che coinvolge argomenti di grande impatto emotivo e da trattare con grande attenzione e, proprio se non si vuole dare forza al tentativo di chi, da anni, cerca di criminalizzare l’azione partigiana di via Rasella, evitando affermazioni ideologiche, ma argomentando con calma, tenendo ferme le ragioni della storia e dell’etica. Alla fine, la nostra opinione può essere riassunta dalle parole di Giulia Spizzichino, commerciante (sette dei suoi parenti sono stati uccisi alle Fosse Ardeatine; diciannove nei campi di sterminio), la cui testimonianza è riportata nel libro di Portelli: “Parla una che ce n’ha sette, quindi non è che dico ‘be grazie tanto’, eh. Per piacere. Però non è che gli si poteva dar carta libera [ai tedeschi], fate quello che vi pare. In qualche modo bisognava che Roma reagisse, no. O dovevamo aspetta ’boni boni che arrivassero gli alleati, ecco venitece a liberare, intanto noi ‘n ce moviamo”.
O ancora, quest’opinione, risuona nelle amare parole di Pasquale Balsamo, uno dei gappisti che partecipò all’azione, sempre riportate nello stesso libro di Portelli: “Ho voglia di dire ai giovani di domani, se avrete occasione di subire un’altra occupazione straniera, fate finta di non vedere, giratevi dall’altra parte, abbozzate, anzi aiutate il nemico invasore, torturatore, razziatore, assassino. Vi guadagnerete la riconoscenza delle persone perbene, timorate di Dio”.