La scuola 725 (Don Roberto Sardelli  (Pontecorvo, 5 aprile 1935 – Pontecorvo, 18 febbraio 2019)

Pubblichiamo la relazione svolta da un nostro associato, presso la biblioteca Nelson Mandela, nel luglio 2018, in occasione della serie di incontri "Il ciclo dell'acqua"


“Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli,
ma non avessi la carità,
sarei come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.”  

(San Paolo)   


Introduzione. 

La storia della scuola 725 aperta da don Roberto Sardelli tra le baracche dell’Acquedotto Felice, nel 1968, è ancora oggi relativamente nota.

Sulla vicenda, nel 2008, il regista Fabio Grimaldi, in collaborazione con il sacerdote, ha girato il film documentario, Non Tacere, vincitore del premio come miglior documentario al Festival Arcipelago e inserito nella selezione ufficiale del Festival del Cinema di Roma. Al tempo, il documentario è stato diffuso in molte scuole superiori dove il religioso e i suoi collaboratori parteciparono a dibattiti, confrontandosi con i giovani su temi come l'emarginazione, le nuove povertà, il ruolo della fede e la testimonianza cristiana, la necessità di un impegno etico e politico nella società, ecc. Inoltre il documentario fu diffuso nei circoli Arci in tutta Italia. 

In occasione delle riprese del documentario, gli allievi della scuola e i collaboratori del sacerdote, dopo quarant'anni dall'abbattimento delle baracche, si riunirono per rievocare fatti e aneddoti legati alla Scuola 725. L’incontro fece nascere nuova voglia di impegnarsi in favore delle classi subalterne. Così, a quarant'anni dalla prima lettera al sindaco, ce ne fu una seconda dal titolo Per continuare a Non Tacere, contributo per un rinnovato governo della città. Il documento apparve in versione integrale sul quotidiano Liberazione ed ebbe ampia diffusione nella città. La lettera alimentò polemiche e interventi. L’allora sindaco Walter Veltroni accolse, nel 2007, in Campidoglio il religioso e il neonato Gruppo Non Tacere. Il colloquio si risolse, però, in un nulla di fatto, per la divergenza di idee rispetto al problema delle periferie romane e alla visione della politica come bene comune da costruire dal basso. 

Nel 2012 poi, l’editore Kurumuny di Lecce ha ripubblicato il libro “Vita di Borgata”, uscito in prima edizione presso la Nuova Guaraldi nell’ormai lontano 1980, nel quale il protagonista racconta l’esperienza della scuola. Il libro ha ricevuto recensioni, più o meno autorevoli.  

Cosa altro aggiungere per riuscire nell’intento di suscitare la voglia di aprire il libro e di andare oltre la conoscenza di maniera delle tematiche affrontate, per capire se in quelle pagine c’è qualcosa di prezioso da non disperdere? Beh, diceva lo storico francese Marc Bloch che “Ogni libro di storia degno di questo nome dovrebbe comprendere un capitolo o, se si preferisce, una serie di paragrafi posta agli snodi decisivi della trattazione, il cui titolo suonerebbe all’incirca così: “Com’è possibile sapere ciò che sto per dire?” (1). A questa domanda, nel caso specifico, ho la fortuna di poter rispondere: per aver vissuto in prima persona in luoghi come quelli raccontati nel libro! Eh già perché gli anni della mia infanzia e dell’adolescenza sono trascorsi in una di quelle località baraccate di Roma elencate nell’Appendice II del libro in questione, a poche decine di metri dal punto dove all’altezza della fine della salita del Quadraro, lo stesso Acquedotto Felice sotto le cui arcate il sacerdote aprì la sua scuola, attraversa la Tuscolana. Il “tratto” di acquedotto è diverso, ma uguali le vicende umane, i personaggi e i problemi.  

Per me è, quindi, facile collegare le pagine in cui lo scrittore ricorda il rigagnolo puzzolente, l’umidità delle case, il fumo delle stufe a legna, alle esperienze vissute nel borghetto di via Anzio o viste nella traversata che quotidianamente mi conduceva a scuola, passando tra le baracche addossate agli archi di via dell’Acquedotto Felice e poi sotto il “Ponticello” della ferrovia Roma-Cassino. Come non rammentare la povertà estrema e il senso di esclusione provato nei primi rapporti sociali? Come non ricordare, inoltre, di aver conosciuto, alla fine dell’adolescenza e con la maturazione di quella che allora si usava definire “coscienza politica”, uno degli animatori di alcune delle occupazioni di case rievocate (quella di via Marcio Rutilio, nel quartiere di Torre Spaccata allora appena sorto sulla via Subaugusta, oggi Palmiro Togliatti) e poi di aver condiviso con lui l’esperienza di altre lotte per la casa? Come non riconoscere nella creazione di quello che, nel 1977, fu il primo Centro Sociale Autogestito della città (quello di via Calpurnio Fiamma) uno dei frutti di quelle esperienze? È questa condivisione a darmi il coraggio di cercare nel libro un messaggio capace di attraversare il tempo e parlare anche oggi a chi non immagina cosa volesse dire vivere in uno dei tanti borghetti esistenti a Roma tra gli anni ’60 e l’inizio dei ’70.

Per trasmettere la voglia di aprire il libro, però, questo coinvolgimento può essere solo il punto di partenza. Per “distillare” dalle memorie del sacerdote un messaggio capace di attraversare il tempo trascorso, occorre altro. È per dare soluzione a quest’esigenza che ho cercato di classificare tutte le informazioni contenute nel testo in una griglia basata sulla regola aurea che prescrive, quando si parla di qualcosa, di definirla rispetto a cinque domande essenziali. Rispondere a queste domande è, forse, il modo migliore di destare la curiosità e di spingere ad aprire il libro per scoprire questa storia di tanti anni fa.


Chi: Don Roberto Sardelli

Il sacerdote nasce a Pontecorvo, nella bassa Ciociaria, nel 1935, all’interno di una tipica famiglia meridionale di medio-alta borghesia terriera. Riceve un’educazione cattolica indirizzata al rigore e attenta alla condizione degli ultimi. Si racconta che in casa sua, prima di sedersi a tavola veniva fatto recapitare a quattro famiglie povere del paese lo stesso pranzo, e non si cominciasse a mangiare prima di essersi assicurati che tutti stessero facendo la stessa cosa.

Dopo una breve esperienza politica e lavorativa, nel 1960 entra in seminario, a Roma, dove è ordinato sacerdote nel 1965. Durante i suoi studi filosofici e teologici ha modo di incontrare don Milani a Barbiana. Soggiorna a Lione dove si confronta con l’esperienza dei preti operai e studia le opere del singolare gesuita-scienziato Teilhard de Chardin. Dopo pochi mesi di incarico parrocchiale presso la parrocchia di S. Policarpo passa a vivere tra i baraccati dell'Acquedotto Felice, fondando la Scuola 725.

 

Dove: Acquedotto Felice

L’Acquedotto Felice è la struttura costruita per volontà di papa Sisto V (Felice Pieretti) nel 1585, per trasportare l’acqua dalle zone di Zagarolo e Palestrina ai quartieri adiacenti il Viminale e il Quirinale. L’Acquedotto fu costruito seguendo il percorso e utilizzando in parte le pietre del preesistente Acquedotto Marcio che correva a fianco dell’Acquedotto Claudio. Le strutture originarie sono state testimoni di grandi avvenimenti storici. Nel 537, il re degli ostrogoti Vitige sfruttando il percorso delle due strutture, che si intersecano due volte nell’arco di qualche centinaio di metri, una volta dove oggi si può vedere la Torre del Fiscale e un’altra più a monte, fece acquartierare tra gli archi le sue truppe nel corso dell’assedio a Roma, appena riconquistata all’impero dal generale bizantino Belisario, nel quadro del tentativo dell’imperatore d’Oriente, Giustiniano di ricostituire l’unità dell’impero romano (Guerra Gotica).

Ma l’Acquedotto Felice di cui vogliamo parlare è stato luogo di un’altra storia. Molto più vicina nel tempo, ma che non essendo una storia di grandi condottieri e battaglie, molto più dell’altra, rischia di essere inghiottita e dimenticata.

Per individuare questo luogo, la cosa migliore è immaginare di essere sotto il grande arco sulla via Tuscolana dal quale si scende verso il Quadraro. A ben guardare, sulla sinistra si vede una via oggi chiusa da un cancello, che corre tra l’Acquedotto Felice e quello di Claudio. Un tempo questa stradina era percorribile. Piena di abitazioni di un solo vano, ricavato dalla tamponatura di una delle arcate, davanti alle quali sedevano prostitute dai capelli tinti con colori molto vistosi. Stando ben attenti a non essere travolti dal lungo tram bianco e azzurro della STEFER che collegava la Stazione Termini a Cinecittà, si raggiungeva la grande Mostra dell’Acqua felice (per tutti gli abitanti della zona: Fontana del Mandrione) e poi avendone il coraggio, le altre baracche di via del Mandrione, assurte in quegli anni a simbolo dell’emarginazione della periferia romana. Tanto da meritare una canzone scritta da Pier Paolo Pasolini, musicata da Piero Piccioni e meravigliosamente interpretata da Gabriella Ferri. (2)

A destra dell’arco, due vie parallele, piene di abitazioni simili a quelle ricordate, costeggiavano l’imponente struttura muraria, fino alla Torre del Fiscale dove le baracche punteggiavano il paesaggio da piena campagna romana. Quasi nessuno raggiungeva da qui il resto delle baracche esistenti all’altezza della chiesa di San Policarpo. Ciascun borghetto era un mondo a parte, ognuno chiuso nelle sue vicende. Pressoché insuperabile si ergeva, come del resto è rimasta a lungo, all’altezza di via del Quadraro, la barriera della ferrovia. La strada era più lunga: bisognava scendere verso il Quadraretto, girare a destra per via dei Levii, superare la scuola Damiano Chiesa su via Opita Oppio, raggiungere i platani di via Cartagine, percorrere via Selinunte con i suoi edifici ordinati, oltrepassare la scuola Salvo d’Acquisto, attraversare via del Quadraro e finalmente, di fronte al polveroso campo di calcio Patti, dietro la chiesa delle suore, all’interno di quello che oggi è il Parco degli Acquedotti, si arrivava al luogo dove, tra la fine degli anni’60 e l’inizio di quelli ’70, sorse la Scuola 725.

     

Quando: 1968-1973

La scuola 725, una baracca di 9 metri quadrati, apre nel 1968 e chiude nel 1973, quando gli abitanti del borghetto vengono trasferiti negli alloggi Armellini a Nuova Ostia (sì proprio quelli della mafia degli Spada … ma questa è un’altra storia!).

 

Che cosa: La storia della scuola 725

Il libro “Vita di Borgata” racconta l’esperienza educativa e di vita condotta da don Sardelli con l’apertura della scuola “popolare” all’interno di una delle baracche ricavate negli archi dell’Acquedotto. Il sacerdote rievoca in prima persona l’incontro con i ragazzi e con i baraccati e riflette su quanto quest’incontro ne abbia cambiato la vita, riverberandosi sui suoi rapporti con la gerarchia ecclesiastica e la società. Le vicende della scuola sono intercalate da alcuni ritratti di emarginati particolarmente toccanti, mentre caustiche sono le opinioni del sacerdote sui diversi esponenti dei gruppi dell’estrema sinistra che tentarono l’avvicinamento con l’esperienza della scuola.

 

Perché: Vivere tra i poveri

Le analisi del libro sono state, per lo più, orientate a sottolineare gli elementi di politica generale, quali la speculazione edilizia dell’epoca, una certa ottusità del sistema scolastico, l’atteggiamento retrivo delle gerarchie ecclesiastiche o il pietismo di vicende umane quali le morti infantili dovute alle pessime condizioni igieniche delle baracche, l’emarginazione vissuta dai protagonisti, ecc. Un tempo anche io sarei stato d’accordo con tali tesi, magari calcando la mano sull’assenza di una vera “coscienza di classe” e tacitando quella parte di me attratta più dal cuore che dalla ragione. Intendiamoci, i fenomeni ricordati sono reali, ma insufficienti a spiegare perché le pagine del libro trasmettano quel “calore” che è possibile avvertire nella lettura del testo, aldilà dei tanti anni passati. Parafrasando uno degli autori che mi ha accompagnato in questo cambiamento di prospettiva, potrei dire che “soltanto adesso che la mia barba è bianca comincio a guardare le cose del mondo e cerco di capire il loro meccanismo”. (3)

Non so se è quello più giusto, ma questo è però lo sguardo che mi conduce a cogliere la combinazione tra la carità che animò don Sardelli e la voglia di un protagonismo che non si limitava ad un orizzonte assistenzialistico da parte dei “baraccati” dell’Acquedotto. Una miscela che avrebbe potuto dare frutti ben più preziosi di quello che è riuscita a fare, stretta come è stata dalla sordità dei governanti, delle classi dirigenti e anche dei partiti e movimenti della sinistra, incapaci di accogliere fino in fondo questo messaggio.

 

 

(1)   Marc Bloch. Apologia della storia o Mestiere di storico. Einaudi, 1993

(2)   Ecchime dentro qua'
tutta ignuda e fracica
fino all'ossa de guazza,
'ntorno a me che c'è
quattro muri zozzi un tavolo
un bide'.
Fileme se ce sei Gesu Cristo
guardeme tutta sporca de pianto
abbi pieta' de me !
Io che nun so gnente
e te er re dei re !
Lavora' senza mai rifiata'
moro ma l'anima nun sa.
Fileme se ce sei
Gesu Cristo !

(3)   Sergio Quinzio. La croce e il nulla. Adelphi, 1984.

 


Pasolini visita un borghetto