La leggenda di Coriolano

A pochi percorrendo via del Quadraro, verrà in mente Coriolano, il protagonista di una celebre leggenda ambientata nell'antica Roma. Eppure il luogo dove i romani immaginarono il commovente tra il condottiero ribelle a Roma, con la madre e la moglie, doveva essere localizzato proprio all'altezza di questa via. 

Nel V secolo a.C., dopo il crollo dell’egemonia dei Tarquini, Roma si trovò minacciata sia dai Sabini, popolo di montanari che viveva sulle estreme pendici degli Appennini ed aveva i suoi centri a Curi (nel territorio dell’’odierna Fara Sabina), che dai Volsci, altro popolo montanaro, ma proveniente dal Sud della città.

L’avanzata di questi ultimi è attestata sia dall’archeologia che da fatti e leggende. Ad esempio, Terracina, che cadde nelle mani dei Volsci, fu ribattezzata Anxur, nome di cui rimane traccia nel culto locale di Giove Anxorano. Le diverse dominazioni che si successero a Velletri, città di confine, non le impedirono di assumere un deciso carattere volsco nel quinto secolo, tanto che qui fu rinvenuta la cosiddetta Tavola Veliterna (350 a.C. circa), cioè una lunga dedica alla divinità locale Declun, che costituisce la più importante testimonianza sulla lingua dei Volsci. Altre tracce della presenza del popolo montanaro sono state rinvenute a Cora (Cori), Carascupo (forse l’antica Pomezia) e soprattutto ad Anzio.

In questo quadro assumono fondatezza anche le testimonianze storiche quali i resoconti di guerre redatti da Livio, riferiti, in gran parte, proprio al quinto secolo. E trovano collocazione anche leggende come quelle di Coriolano, eroe transfuga da Roma destinato, secondo Plutarco, a trovare la morte, per mano di quegli stessi Volsci che aveva condotto contro la città, in circostanze commoventi. Il condottiero è rappresentato, infatti, al centro di un vero e proprio dilemma: accogliere le suppliche della madre Volumnia e della moglie Virgilia, che lo invitavano a deporre le armi, rinunciando all’attacco contro la sua città d’origine, o dar seguito all’impegno assunto con i Volsci.

Che quella di Coriolano sia una leggenda è dimostrato dall’assenza di riscontri nelle fonti della sua effettiva esistenza e dal carattere fortemente “didattico” della narrazione: quello che si vuole tramandare, peraltro riuscendoci, visto che l’eroe diviso tra fedeltà agli impegni e tenerezza per i cari, è divenuto immortale e che a lui sono state dedicate nel tempo una tragedia di Shakespeare, un overture di Beethoven, alcuni dipinti di grandi pittori e un paio di film, è l’illustrazione del fatto che, nell’uomo pubblico, il valore sia accompagnato dalla temperanza.

Questi i fatti, secondo la versione di Plutarco, nelle sue Vite parallele.

La storia ha inizio nel 499 a.C. quando Menenio Agrippa convince, grazie a quello che diventerà il suo celebre apologo, la plebe, rifugiatasi presso quello che in seguito si chiamerà Monte Sacro, a rinunciare alla sedizione, alimentata dalla convinzione di essere perseguitata dagli aristocratici.

Gneo Marcio, giovane e valente combattente, appartenente alla gens Marcia, casa patrizia da cui proveniva anche il re Anco Marcio, manifestò la sua contrarietà sia al tentativo di riappacificazione, che all’istituzione, concessa dal Senato di Roma proprio per mostrare la volontà di pace, dei cinque tribuni della plebe.

A poca distanza da questi avvenimenti, Marcio ebbe modo di mostrare tutto il suo valore e la sua nobiltà d’animo, durante la guerra contro i Volsci che condusse alla conquista di Coriolì (monte Giove, presso Genzano). Anzi, proprio, il coraggio mostrato in battaglia, la rinuncia al bottino, e il fatto che la sola richiesta avanzata fosse quella di liberare dalla schiavitù un amico, gli valsero il nome di Coriolano.

Appena cessate le ostilità con i Volsci, il contrasto tra patrizi e plebei, riprese vigore, anche perché nel frattempo era scoppiata una grave carestia. In queste circostanza, giunse al Senato, una richiesta da Velletri. La città offriva a Roma il suo controllo, in cambio dell’invio di coloni, in sostituzione dei veliterni decimati da una pestilenza. Il Senato accolse la proposta, cogliendo in essa una duplice occasione: da una parte, l’espansione territoriale e, dall’altra, l’opportunità di diminuire le tensioni politiche, con l’inserimento tra i coloni, dei più accesi sostenitori delle proteste.

La manovra incontrò, però, la feroce opposizione dei tribuni della plebe, Bruto e Sicinnio. In questa circostanza, Marcio, accentuò le sue posizioni, assumendo il ruolo di capo dell’opposizione aristocratica alla plebe. Arrivò a formare addirittura una sua milizia personale, con la quale condusse un’incursione nel territorio di Anzio, alla fine della quale, ricavò un ricco bottino, che lasciò interamente ai suoi soldati.

Poco tempo dopo tali fatti, si dovevano svolgere le elezioni per il Consolato. Marcio si candidò. In città il sentimento nei suoi confronti era fortemente ambivalente. Da una parte, c’erano il rispetto e l’ammirazione per il suo indubbio valore e la magnificenza dimostrati in battaglia, ma, dall’altra, pesava il suo carattere caparbio e altero, che faceva temere alcuni, non solo che una volta arrivato al Consolato, potesse ulteriormente attaccare la libertà della plebe, ma anche che potesse costruirsi un suo potere personale.

I timori prevalsero e Marcio fu sconfitto. Il risultato provocò in lui una delusione profonda. Nel frangente, si resero manifesti i limiti della sua personalità: in lui l’ambizione e il carattere, pur sostenuti da un grande valore, non erano temperati dalla moderazione necessaria all’uomo politico. Così in lui prevalsero il rancore e l’amarezza verso il popolo, anziché la pazienza. A rafforzare questa deriva, contribuiva anche il sostegno di quei giovani patrizi che lo seguivano ammirati.

Questi sentimenti lo portarono, quando, in città, durante una carestia, arrivarono i carichi di grano, comprati o donati da Gelone, il tiranno di Siracusa, a scagliarsi contro il Senato e ad attaccare con veemenza chi propugnava la vendita a prezzo filantropico del cereale acquistato, nonché, la distribuzione gratuita di quello donato. Provvedimenti che, secondo lui, essendo totalmente sganciati da qualsiasi impegno, ad esempio quello militare, avrebbero alimentato il clima di insubordinazione, rafforzando nella plebe la convinzione che il Senato nutriva paura nei suoi confronti. Intorno a Marcio si strinsero molti giovani patrizi e non pochi senatori che, finalmente, pensavano di aver trovato chi aveva il coraggio di non cedere alle lusinghe dell’adulazione della plebe, cogliendone il sottile confine con l’incoraggiamento inconsapevole, della sedizione.

Ma furono proprio il suo ardore oratorio e il successo, a tradire il futuro condottiero ribelle. I tribuni, infatti, allarmati, radunarono la plebe, incitandola alla ribellione contro quelli che, secondo loro, erano insensibili alle condizioni di povertà del popolo. La plebe, convinta, tentò allora di assaltare il Senato. I tribuni, prendendo la palla al balzo, presentarono allora una denuncia contro Marcio, per farlo convocare perché si discolpasse. Quando Coriolano respinse con sdegno gli ufficiali che dovevano accompagnarlo in Senato, i tribuni si recarono personalmente da lui, insieme agli edili, per tradurlo con la forza. Ma anche questo tentativo fu respinto, anche grazie all’intervento dei sostenitori del patrizio.

I consoli, di fronte al tumulto, tentarono la via della mediazione, cercando di rassicurare la plebe circa la distribuzione e il prezzo del grano. La situazione tornò sotto controllo, ma su un punto il popolo e i tribuni furono irremovibili: Coriolano avrebbe dovuto rispondere del suo tentativo di liquidare i poteri della plebe e difendersi dalle accuse di aver istigato il Senato a violare le leggi che li stabilivano e, come dimostrava il fatto di aver picchiato e ingiuriato gli edili, di aver incitato alla guerra civile.

Coriolano, si presentò effettivamente davanti ai tribuni, dando mostra di aver accettato le accuse, ma una volta presa la parola, fu travolto dal suo impeto. Mostrò tutto il suo sdegno e il suo disprezzo verso gli accusatori. La plebe reagì. Sicinio, il più deciso dei tribuni, proclamò la sua condanna a morte, ordinando agli edili di arrestarlo e di gettarlo dalla Rupe Tarpea. I seguaci del futuro condottiero, però, ne impedirono l’arresto. I tribuni capirono che arrestare Coriolano era impossibile. Sicinio chiese a quelli che si opponevano all’arresto, quale fosse il loro intento. I patrizi, risposero, chiedendo, a loro volta, quali fosse il senso della richiesta di infliggere una punizione tanto crudele e illegale in quanto non scaturita da un regolare processo, ad uno degli uomini più valorosi di Roma. Il tribuno, allora, ne approfittò, per fissare sul momento la data e le modalità del processo, precisando che esso si sarebbe svolto a votazione.

I patrizi, si ritennero soddisfatti del rinvio. Al loro interno si produssero due fazioni. La prima, capitanata da Appio Claudio, secondo il quale, nella pretesa di giudicare Coriolano, si manifestava il rischio dell’autodistruzione del Senato e la seconda che, invece, pensava che l’esercizio della facoltà avrebbe condotto il popolo su posizioni più moderate.

Marcio, stavolta, non cercò di forzare la situazione, limitandosi a chiedere ai tribuni sulla base di quali imputazioni sarebbe stato giudicato. Tirannide, cioè aver tentato di usurpare il potere, gli risposero. Coriolano, allora, acconsentì di presentarsi in giudizio davanti al popolo, dichiarando di essere disposto ad accogliere qualsiasi verdetto, chiedendo solo garanzie circa il fatto che ci si sarebbe attenuti alle accuse originarie.

Durante il giudizio, però, i tribuni, pretesero che la votazione avvenisse per tribù, anziché per centurie, conferendo così la maggioranza ad una plebe in cerca di facili vendette, irrispettose anche dei più valorosi esponenti della città. Per di più, l’accusa di tirannide, chiaramente insostenibile, fu sostituita da quella di aver ostacolato il ribasso del prezzo del grano e di aver cercato di far abolire il tribunato. Un’altra accusa, forse la più ingiuriosa per Marcio, fu infine aggiunta: quella di non aver consegnato al tesoro pubblico il bottino della guerra contro Anzio, ma di averlo diviso, per scopi personali, solo con i soldati che avevano combattuto al suo fianco. Era questa, un’accusa inaspettata, che colse Marcio impreparato a difendersi, convinto com’era di aver operato in modo virtuoso.

L’esito del processo, fu la condanna, a maggioranza, all’esilio a vita.

Sulle prime, sembrò che Coriolano accettasse il verdetto. Egli, anzi, incitò la madre e la moglie a sopportare gli avvenimenti con equilibrio. Subito dopo, però, raggiunse le porte della città. Vagò qualche giorno per la campagna. Il rancore e i desideri di vendetta, lo travolsero. Si convinse che doveva spingere i Volsci in una guerra contro Roma. A questo fine, affrontò un grandissimo rischio: si recò presso Tullio Anfidio, l’uomo considerato come un re, dal popolo montanaro, col quale si era personalmente scontrato in battaglia. Alla fine, nonostante le perplessità iniziali, il re, riconoscendo la dirittura morale dell’antico nemico, si convinse a scendere in guerra contro Roma.

A Marcio fu assegnata la responsabilità di buona parte della campagna contro Roma. Sotto il suo comando, i Volsci conquistarono numerose città, quali Tolerio, Labico, Pedo e Bola (nella valle del Sacco, tra Palestrina e Montecompatri).

I Romani, sottovalutando gli attacchi, non si decidevano a rispondere con il dovuto vigore all’offensiva. Tale situazione perdurò fino a quando non giunse in città, la notizia che i nemici avevano posto l’assedio a Lavinio, il luogo dove si riteneva risiedesse l’origine stessa di Roma. Un singolare rovesciamento di posizioni seguì a questo fatto: mentre il popolo manifestò la sua disponibilità all’annullamento della condanna a carico di Marcio, i senatori, forse preoccupati dalla popolarità che Marcio avrebbe potuto ottenere presentandosi come condottiero vincitore, posero il veto alla decisione.

Ciò fece infuriare il condottiero ribelle, che levò l’assedio a Lavinio e marciò direttamente contro Roma, accampandosi alle Fosse Clelie, a soli quaranta stadi dalla città (uno stadio equivale a 185 metri). La minaccia fece recedere i senatori dal veto e li convinse ad inviare ambasciatori, recanti un’offerta sostanziosa: la revoca dell’esilio, in cambio della cessazione delle ostilità. Ci si aspettava che tale offerta ricevesse un’accoglienza positiva, ma Marcio deluse l’aspettativa, rilanciando anzi le sue richieste. Fece sapere che subordinava la pace alla restituzione ai Volsci, delle terre conquistate nelle guerre precedenti e alla concessione, al popolo montanaro, degli stessi diritti concessi in precedenza ai Latini. A ciò accompagnò un ultimatum di trenta giorni. Ingiunzione, a cui, però, abbinò un gesto di buona volontà: il ritiro delle truppe.

A dire il vero, questa iniziativa creò malumori nel campo volsco. Malumori alimentati anche dalla gelosia che intanto montava in Tullo, nei confronti di Marcio. A poco servì che, in realtà, le ostilità continuassero con la conquista di alcune città alleate di Roma.

Allo scadere dell’ultimatum, Marcio, riunì l’esercito, mentre i romani rinnovavano informalmente le offerte di pace. Il comandante delle truppe volsche replicò che Roma avrebbe dovuto ratificare le sue proposte, concedendo un ulteriore termine di tre giorni, scaduto il quale, avrebbe ripreso le ostilità e non avrebbe più ricevuto ambasciate.

Il Senato accettò di trasformare la richiesta di porre fine alla guerra, da informale in ufficiale, dichiarando la disponibilità a recepire le richieste avanzate. La delegazione ufficiale che comunicò tale decisione, fu, però, ricevuta con freddezza da Marcio, che rinnovo le sue richieste, senza mostrare alcuna volontà di riconciliazione.

Al suo ritorno, la delegazione, preso atto dello stato di fatto, comunicò al Senato che la guerra era ormai prossima. In città, iniziarono i preparativi di guerra. Come tradizione in questi casi, iniziarono i cortei delle donne presso i templi cittadini. Tra loro, ce ne fu una, Valeria, sorella di quel Publicola, che tanti onori aveva riportato come fedele servitore di Roma, che mentre era intenta a pregare presso il tempio di Giove Capitolino, ebbe l’ispirazione di recarsi presso l’abitazione di Volumnia, la madre di Marcio, per sollecitare un suo intervento per convincere il figlio a deporre le armi.

Ricevendo le altre donne, Volumnia e Virgilia, la moglie di Marcio, si unirono al loro dolore e alla loro preoccupazione, lamentando la loro situazione personale particolarmente tragica, combattute come erano tra la possibile perdita di un figlio e di un marito o la perdita di onore presso la patria. Alla fine, le due donne acconsentirono al tentativo e mossero verso l’accampamento dei Volsci (sito al confine dell’Ager Romanus Antiquus, al Quarto Miglio dell’antica via Latina, nei pressi dell’attuale via del Quadraro).

Alla vista del corteo di donne e riconosciute, tra di loro, la madre e la moglie, Coriolano cadde preda di sentimenti contrastanti: continuare nel suo atteggiamento fermo e implacabile, o cedere alla tenerezza. Il sentimento vinse e l’uomo corse incontro al corteo, abbracciando le donne e i figli. Tornando in sé, volle ascoltare Volumnia, alla presenza dei consiglieri Volsci.

La donna espose il dilemma tragico nel quale lei e gli altri familiari si trovavano: costretti a dividersi, tra il desiderio che Coriolano conservasse salute, fortuna e onori e la consapevolezza che ciò avrebbe comportato la rovina di Roma. Chiese, quindi, al figlio, di forzare il dilemma, diventando il protagonista della pace e salvaguardando il suo onore sia presso i Volsci, che i Romani.

Marcio, dapprima, sembrò non accogliere le suppliche di Volumnia che, dopo aver evidenziato che proprio la rettitudine dell’uomo, lo avrebbe dovuto condurre, invece, ad accoglierla, si gettò ai suoi piedi, insieme alla moglie e ai figli.

“Cosa mi hai fatto madre?”, gridò allora Coriolano, vinto dalla tenerezza, alla donna, sollevandola da terra, “Hai vinto!”, continuò, “e la tua vittoria significa fortuna per la patria, ma rovina per me: ritiro le mie truppe, da te solo sconfitto!”

Pronunciate queste parole, si appartò con la madre e la moglie, dicendo loro di rientrare a Roma e dando poi l’ordine alle truppe di arretrare.

Quest’ordine creò scompiglio tra i Volsci: c’era chi lo disapprovava, condannando anche l’uomo, e chi invece apprezzava la sua decisione per il desiderio di pace e chi, pur non volendo la fine delle ostilità, non lo condannava, in considerazione delle circostanze in cui, si era trovato. Nessuno, comunque, si oppose alla decisione.

A Roma, la notizia della fine delle ostilità fu largamente festeggiata e si arrivò ad offrire a Volumnia e Virgilia, qualunque ricompensa avessero chiesto, riconoscendo loro il merito di aver fermato la guerra. Le due, però, si limitarono a chiedere l’erezione di un tempio alla Fortuna delle donne.

Coriolano, invece, pago cara la sua decisione: al suo ritorno ad Anzio, fu ucciso ad opera di congiurati armati da Tullo, accecato dalla rabbia e dalla gelosia che covava in lui da tempo.