L’orzo selvatico (Hordeum murinum) e l’agricoltura

1.     La nascita dell’agricoltura

L’umile Hordeum murinum, diffusissimo anche nelle aree incolte delle nostre città, è una delle piante domesticate dai nostri progenitori, nel Vicino Oriente, per dare inizio all’agricoltura. I nostri progenitori, forse anche prima della data fatidica dei 10.000 anni fa in cui, convenzionalmente, si data l’inizio dell’agricoltura stanziale e il conseguente passaggio dalla civiltà dei cacciatori-raccoglitori a quella degli agricoltori, osservando i molti roditori che accumulavano grandi quantità dei suoi semi caduti a terra, nelle tane, furono presi dalla curiosità di assaggiarli, scoprendo che potevano contribuire alla loro alimentazione. Mano a mano, poi, nel passaggio alla pratica di coltivare lo stesso pezzo di terra, scelsero le piante più robuste e che davano i frutti più robusti, esercitando la selezione che portò all’attuale orzo coltivato (Hordeum vulgare).

Come è noto l’agricoltura rappresenta un salto determinante nella storia dell’uomo. Tale salto delinea una fase evolutiva dell’umanità che è apparsa in tempi diversi, in angoli molto lontani del pianeta, quasi che essa si producesse sistematicamente, in occasione del raggiungimento di certi livelli di sviluppo, in culture molto diverse e ragionevolmente non comunicanti tra loro: in Cina e in Mesopotamia, in Messico e in Africa Meridionale.

C’è da dire che tale fenomeno (la comparsa di similitudini nei comportamenti), riguarda anche fasi precedenti (la raccolta dei frutti selvatici nella foresta, la caccia nella boscaglia più rada e nella savana, la pesca; infine la pastorizia nomade e l’agricoltura “itinerante”, nella radura bruciata dal fuoco, abbandonata quando diminuiva o spariva la fertilità naturale). Tale comparsa, seppur con differenze di migliaia di anni da un posto all’altro, rivela una singolare somiglianza nell’evoluzione e nella successione dei comportamenti umani, ai quattro angoli del mondo. Ciò in un’epoca, quella dell’albore della specie umana, nella quale è difficile pensare che l’uomo fosse in grado di mantenere, tra un gruppo e l’altro, quei legami necessari a consentire la diffusione delle esperienze culturali di volta in volta acquisite. Si può, quindi, concludere che si tratta di evoluzioni autonome e parallele. La “stanzialità”, cioè la permanenza e la continuità di sfruttamento della stessa area, è quasi sempre presupposto per la nascita e lo sviluppo della civiltà. Essa, infatti, consente la costruzione dei caratteri determinanti per l’accumulo dei fattori necessari a tali fenomeni: l’edificazione di strutture urbane permanenti, la convivenza tra diverse generazioni, la sovrapposizione tra classi di età.

Ma lo sfruttamento della terra non può avvenire dappertutto. Esso richiede, infatti, una serie di condizioni non facilmente riscontrabili, quali: un clima mite, una disponibilità d’acqua e la rigenerazione della fertilità consumata. Tali condizioni possono caratterizzare ecosistemi diversi, sotto la combinazione di vari fattori: piogge abbondanti e ripetute o irrigazione naturale per allagamento o scorrimento e la ricostituzione della fertilità per riposo della terra (rotazione) o per “concimazione naturale” da residui vegetali, o, più tardi, l’introduzione di tecniche di lavoro, anche rudimentali, quali l’aratura.

Le valli fluviali dei paesi caldi, quali quelli dell’Oriente lontano e medio e del Mediterraneo, presentano spesso le caratteristiche richieste. Il fiume, e questo spiega perché tutte le città dell’antichità, nascono su un corso d’acqua, assicura l’acqua, trascina i rifiuti, permette il trasporto di persone e cose.

Poi, c’è un sistema, ancora esistente, di agricoltura “primitiva”, che tutti conosciamo, che ha permesso il più famoso degli insediamenti dell’antichità, quello dell’irrigazione per alluvione, proprio del Nilo.

Lo stesso modello, seppur con alcuni aggiustamenti, è quello ancora oggi utilizzato in molte regioni calde ed aride dell’Asia. La sua estrema semplicità lo rende un candidato ideale per il ruolo di protagonista in un’ipotetica, simbolica, alba dell’agricoltura stanziale, cioè di quel rapporto cosciente e sistematico dell’uomo con la terra e l’acqua, così importante per la storia umana. Nei terreni bassi vicini al corso d’acqua, i depositi limosi molto fini permettono il rinnovo della fertilità e, anche con una sola sommersione di qualche ora o di pochi giorni, regala l’umidità per la crescita dei cereali che avviene in qualche settimana. Se l’allagamento si replica due o tre volte dopo la semina, ad intervalli più o meno, regolari, si hanno le condizioni ottimali per la crescita delle piante.

Il meccanismo descritto può innescarsi nei meandri (gomiti del corso d’acqua creati dalla diminuzione della velocità di scorrimento, originata da un ostacolo o un cambiamento di pendenza; il fiume Meandro nell’attuale Iran ne è ricco e da esso il fenomeno ha preso il nome), esistenti lungo il corso del Tigri e dell’Eufrate, fino all’arida regione alle spalle del Golfo Persico. Anche il Nilo, del reso, perde, via via che scorre dalle montagne dell’Uganda, attraversando il grande stagno di Jongley, fino alle coste dell’Egitto, molta della sua acqua. L’onda di piena, però, beneficamente addolcita dalla lunghissima distanza percorsa, arriva puntuale, al colmo della stagione delle piogge tropicali. Le acque straripano sempre negli stessi punti del tragitto, trasformando i suoi larghi meandri in un’unica gigantesca palude.

Questa è la storia che tutti abbiamo imparato a conoscere a proposito della nascita dell’agricoltura tra gli egizi.

Eppure gli studi degli archeologi, paleontologi e antropologi, hanno rivelato che le civiltà più antiche (quattordicimila, diecimila anni fa), avevano già iniziato a costruire campi e accampamenti nelle valli e poi città nelle alture della Siria e della Mesopotamia. Qui lHomo erectus era apparso precocemente, in ere non troppo distanti dal milione d’anni cui si fa risalire il pitecantropo africano; già 600.000 anni fa le colonie di cacciatori popolano la foresta-galleria dell’Oronte, del Tigri, del Nahr el Kebir, accendendo il fuoco e maneggiando armi.

Nel medio paleolitico ed in quello superiore gli insediamenti si moltiplicano ed è durante questi periodi, tra 12.000 e 8.000 anni orsono che si determina la nascita dell’agricoltura. In oasi come quella di Palmira, le valli dell’Oronte e dell’Eufrate, grazie ad un generale addolcimento del clima, si riempiono di vegetazione e fauna: la foresta-galleria di pioppi, di salici e di tamerici ospita grandi mammiferi erbivori, gli asini selvatici e le gazzelle; il fiume offre pesci ed uccelli; i “grani selvatici” (orzo e frumento) crescono spontaneamente anche con le modeste piogge primaverili. Le ricerche moderne lo confermano: i pollini fossili rivelano un addensamento sistematico dei cereali: l’agricoltura è iniziata, si semina e raccoglie, seppur ancora in forte integrazione con caccia e pesca, ma ha avuto inizio la pratica dell’irrigazione, che avrà un ruolo decisivo.

Il rapporto tra l’uomo e l’ambiente è rivoluzionato. Quella civiltà prospererà per sei-settemila anni: nasceranno le città, le società si struttureranno, si avvierà la storia. Il numero degli esseri umani crescerà fino ad un punto, prima di allora, inimmaginabile; i canali, le gore, le terrazze coltivate cambieranno il paesaggio e il territorio, consegnandolo, alla fine al deserto avanzante ed alla morte, quando, quando i sali trasportati dalle acque e concentrati dall’uomo, millennio dopo millennio, impediranno la crescita dei cereali.

Una parabola, quella dell’iniziale fertilità assicurata dalle stesse acque che trasporteranno, poi, i sali che ne decreteranno la morte, che dovrebbe essere assunta a monito contro l’acritica esaltazione dello sviluppo e dello stesso concetto di progresso.

 

2.     Un progresso in chiaroscuro

La convinzione di essere il centro dell’Universo che l’uomo aveva di sé stesso, è stata largamente ridimensionata dalla scienza. Abbiamo imparato che la Terra non è il centro del sistema solare, ma solo uno dei nove pianeti che ruotano intorno ad una stella che ha miliardi di consimili. Darwin, ci ha mostrato che non siamo frutto di un’attenzione speciale di Dio, ma che ci siamo evoluti insieme a milioni di altre specie. Nello scorso secolo, infine, è stata demolita anche la convinzione della storia umana fosse il racconto di un lungo e inarrestabile progresso. Questa revisione ha investito, inevitabilmente, anche l’agricoltura.

Ma come, potrebbe obiettare qualsiasi persona dotata di buon senso, non è evidente che l’agricoltura stanziale è alla base dello sviluppo di una società nella quale il livello di vita è molto superiore-pressoché sotto ogni punto di vista- a quello degli uomini del Medioevo, che a loro volta vivevano meglio degli uomini delle caverne che avevano migliorato di molto la loro qualità di vita rispetto alle scimmie antropomorfe? E, ancora, non è evidente che oggi godiamo di cibo abbondante e vario, di utensili e beni materiali migliori, di una vita più lunga e di condizioni di salute migliori? Non rischiamo più di finire nelle fauci dei grossi predatori e molti di noi non rischiano di morir di fame. L’energia che utilizziamo proviene da combustibili fossili o da dispositivi che ci permettono di evitare la fatica. In conclusione, solo un esaltato sosterrebbe che non ci sia stato un progresso lineare dalle scimmie antropomorfe, agli uomini delle caverne, al Medioevo, a noi.

Eppure. Analizziamo la faccenda da un altro punto di vista.

Come detto l’agricoltura ha avuto inizio circa 10.000 anni fa. Nell’ottica progressista essa fu adottata perché è un modo molto efficiente per ottenere più cibo con meno fatica. I cacciatori-raccoglitori, perché non avrebbero dovuto abbandonare con entusiasmo la loro vita precedente, che li condannava ad un’esistenza disgustosa, brutale e breve. Ma le cose stanno davvero come si è ritenuto a lungo?

Innanzitutto, se fosse stato vero che l’esistenza dei cacciatori-raccoglitori era quella descritta dagli antropologi, l’agricoltura avrebbe dovuto espandersi velocemente dall’area di nascita. Be’ non fu così: ci mise quasi 2.000 anni per raggiungere la Grecia e altri 2.500 per le Isole Britanniche e la Scandinavia. Ancora nell’Ottocento gli indiani della California (oggi frutteto degli USA), rifiutavano la seduzione che pure conoscevano molto bene, per i loro commerci con gli indiani agricoltori dell’Arizona.

Un altro modo di verificare l’attrattiva dell’agricoltura è osservare se i cacciatori-raccoglitori superstiti (già perché pochi, ma ancora ce ne sono) stiano davvero così peggio degli agricoltori. Anche qui le sorprese non mancano: andando a vedere queste tribù, si scopre che la loro vita non è poi così brutale: hanno del tempo libero, dormono molto e lavorano forse meno dei loro vicini contadini. L’osservazione di questi superstiti, nasconde, peraltro, un’insidia: i cacciatori-raccoglitori sono stati sospinti, proprio dallo sviluppo delle coltivazioni, nei peggiori territori e questo potrebbe aver inciso sul loro livello di vita.

Insomma può essere che non sia possibile sostenere, sulla base di dati di fatto, scientificamente provati, che la vita degli uomini migliorò nel passaggio all’agricoltura? Un altro modo potrebbe essere quello di valutare le condizioni di salute delle popolazioni (cosa che è stata resa possibile dallo sviluppo di una branca della patologia che si occupa di ricavare lo stato di salute dei nostri progenitori, dall’analisi di mummie, scheletri e altri resti umani). Anche qui le sorprese non sono mancate: come è noto il miglioramento dell’alimentazione infantile conduce ad un aumento della statura negli adulti; be’ alcuni scheletri ritrovati in Grecia e Turchia, hanno permesso di fissare l’altezza media degli uomini in 178 cm e in 168 quella delle donne; un’altezza calata con la diffusione dell’agricoltura a 160 cm per gli uomini e a 155 cm per le donne (ancora oggi i moderni greci e turchi devono recuperare l’altezza media dei loro antenati). Altre sorprese sono arrivate dallo studio delle cavità dentali e delle cause di morte (l’anemia quadruplicò, metà della popolazione di agricoltori soffriva di framboesia o di sifilide, due terzi di osteoartrite e altre malattie degenerative); perfino i tassi di mortalità aumentarono con quasi un quinto dell’intera popolazione che, per la malnutrizione, moriva tra uno e quattro anni.

Tre sono i motivi per cui tutto questo accadeva:

-       I cacciatori-raccoglitori avevano una dieta con adeguate quantità di proteine, vitamine e minerali a differenza degli agricoltori che mangiavano quasi solo piante ricche di amidi;

-       Gli agricoltori dipendevano da poche piante e quindi il rischio di morir di fame per un cattivo raccolto, era molto alto;

-       Le malattie infettive e i parassiti che ancora oggi affliggono l’umanità non potevano diffondersi prima della nascita di società affollate e sedentarie.

Ma allora cosa spiega l’innegabile, grande successo dell’agricoltura? Prima di rispondere, vediamo un altro problema innescato da questa pratica: la divisione in classi. I cacciatori-raccoglitori non potevano avere persone specializzate in un certo compito, o, tantomeno, di sfruttare il lavoro degli altri: tutti, esclusi i bambini piccoli (che però dovevano spostarsi in modo autonomo e questo spiega la pratica –ai nostri occhi, barbara- dell’infanticidio, i malati e i vecchi, partecipano alla caccia. L’agricoltura rese possibile la divisione tra una casta sana non produttiva e una massa, produttiva ma aggredita dalle malattie. Così si spiega che gli scheletri delle famiglie reali presentino, oltre a gioielli e monili, meno cavità dentali e quattro volte meno lesioni ossee dovute a malattie infettive, del resto della popolazione.

Per noi, comunque, pensare che avremmo potuto essere più sani se fossimo rimasti nella condizione di cacciatori-raccoglitori, suona balzana. Noi godiamo di una salute migliore di quella dei nostri progenitori. Se, però, allarghiamo lo sguardo, ci rendiamo conto che le nostre condizioni non sono quelle dell’intero genere umano, anzi. In larga parte noi dipendiamo dall’importazione di combustibili fossili e materie prime da paesi dove le grandi masse contadine non condividono certo i nostri livelli sanitari. E così, se valutassimo chi fra un europeo della “media classe”, un cacciatore boscimano e un contadino etiope, viva la condizione migliore, quest’ultimo certo non ne uscirebbe vincitore.

 

E, quindi, cosa resta per rispondere positivamente alla domanda? Resta un fatto che può essere sintetizzato nella frase: “È il numero che fa la forza!”. L’agricoltura rende possibile il mantenimento di una quantità di uomini molto più grande rispetto alla caccia-raccolta (la densità dei cacciatori-raccoglitori è di una persona ogni 2,5 Kmq, contro una dieci volte maggiore degli agricoltori). Questo dipende dal fatto che un ettaro coltivato produce una quantità di cibo che può sfamare molte più persone che un ettaro di foresta, dove le bacche sono disseminate qua e là. Così la circostanza che gli agricoltori sedentari potevano avere un figlio ogni due anni a fronte della possibilità di riprodursi ogni quattro anni dei concorrenti, divenne decisivo. Che l’agricoltura producesse maggiori tonnellate di cibo per ogni ettaro di terreno è il vero motivo per cui è sempre stata considerata una grande passo in avanti per l’umanità. Questo ci ha fatto dimenticare che, ad un maggior numero di bocche da sfamare, alla lunga, si associa il problema che la salute e la qualità della vita sono in relazione con la quantità di cibo disponibile per ogni bocca. Insomma, in conclusione, possiamo dire che in un momento (la fine del periodo glaciale), i cacciatori-raccoglitori stavano crescendo di numero molto lentamente, si trovarono di fronte al dilemma: limitare la crescita o trovare un modo per sfamare più bocche? L’osservazione della natura e una buona dose di temerarietà, indirizzò alcune tribù verso i primi passi per lo sfruttamento stanziale della terra. Queste tribù crebbero più delle altre (per un lungo periodo la produzione di cibo aumentò parallelamente all’aumento della popolazione), scacciandoli, e, a volte, sterminandoli. Fu una scelta felice? La valutazione come si è cercato di mostrare è molto più in chiaroscuro di quanto si potrebbe esser portati a credere. Del resto va detto che se rappresentassimo il tempo storico su di un orologio a ventiquattrore, dove ogni ora equivalesse a centomila anni reali, la durata della nostra vita come cacciatori-raccoglitori, occuperebbe quasi l’intera durata del giorno, passando per l’alba, il mezzogiorno, il tramonto. Solo alle 23,54 abbiamo scelto di diventare agricoltori. Certo oggi non potremmo tornare indietro, ma le domande, di fronte all’aumento della popolazione e all’esaurimento delle risorse del nostro pianeta, restano le stesse di quel passaggio, aggravate però dalla coscienza del limite raggiunto. La miseria ci inghiottirà tutti, oppure, in qualche modo continueremo a raccogliere le delizie della Terra e a goderne?

Porta degli Acquedotti